FOTOGRAFIA E AMBIENTE

FOTOGRAFIA E AMBIENTE

 

INQUINAMENTO DELLO SGUARDO

 

“Credo che, al di là di tanti discorsi e dibattiti intorno al problemi dell’ecologia, non si è mai sufficientemente messo in rilievo come il paesaggio, i luoghi che le persone abitano, non vengono più rappresentati […]; tutti sembrano essersene dimenticati. A me pare che il paesaggio, i luoghi, l’habitat, siano come un territorio nascosto dove si può perpetrare qualsiasi scempio: tutto avviene senza nessun controllo visivo. L’incapacità di guardare all’esterno determina così la possibilità di deturpare qualsiasi luogo senza che nessuno se ne accorga”.

Luigi Ghirri in conversazione con Arturo Carlo Quintavalle.

 

Nel 1991, in conversazione con Arturo Carlo Quintavalle, Luigi Ghirri concludeva con queste parole uno dei suoi ultimi interventi pubblici, dal quale emergeva la speranza che una nuova ecologia dello sguardo fotografico potesse nutrire una vera e propria coscienza civile attorno ai temi dell’habitat contemporaneo.

A distanza di oltre cinquant’anni, le parole di  Luigi Ghirri tornano ad interrogarci sui mutevoli rapporti che le pratiche e il pensiero fotografico intrattengono con la questione ambientale. Superate le distinzioni di genere che a lungo hanno assegnato compiti alternativi alla fotografia di reportage e a quella di ‘paesaggio’, la produzione internazionale ha elaborato linguaggi e strategie nuove, come attestato ad esempio dalle ricerche di David T. Hanson, Edward Burtynsky, Sebastião Salgado e Armin Linke.

Allo stesso tempo, a subire un processo di radicale mutamento è stato il concetto stesso di ambiente: dopo il celebre Rapporto sui limiti dello sviluppo redatto nel 1972  eventi catastrofici come quelli di Seveso (1976), Three Mile Island (1979), Bhopal (1984), Chernobyl (1986), il discorso ecologico si è spostato sempre più sui fattori sistemici a scala planetaria, con i concetti di riscaldamento globale, antropocene (Paul Crutzen) e iperoggetti (Timothy Morton), fino alla recente definizione di una nuova “generazione Greta”.

Di fronte a questi mutamenti di paradigma, la cultura fotografica si trova oggi nella necessità di ripensare in forme nuove – diacroniche, interdisciplinari e sovranazionali.

Alcune domande fondamentali che hanno attraversato il Novecento:

– È possibile individuare tipologie e fasi di sviluppo nella cultura fotografica relativa ai temi ambientali?
Che ruolo hanno avuto nel tempo i singoli fotografi (indipendentemente dal loro status professionale), le riviste fotografiche, studiosi e progettisti del territorio (in merito all’abusivismo), i movimenti ambientalisti (come i Verdi), le associazioni (Italia Nostra), i soggetti istituzionali (come il Ministero dell’ambiente, istituito solo nel 1986)?

– È possibile e giustificato ricostruire o immaginare un ruolo realmente politico della fotografia a fronte delle crisi ambientali? Se sì, quali sono stati i valori, le finalità e le forme di questo ruolo? Oltre quali limiti la rappresentazione dei rischi e dei disastri ambientali si tramuta o si è tramutata da missione civile a mero spettacolo di consumo?

– È ancora possibile oggi restituire o costruire un’immagine fotografica dell’ambiente, a fronte della progressiva globalizzazione dei fenomeni che ne governano la crisi? Quali sfide pone oggi al fotografo la parziale immaterialità e invisibilità dei processi di trasformazione globale?

– Che ruolo ha oggi la rete nel modellare queste pratiche, rispetto ai canali di produzione e diffusione più tradizionali come i mezzi a stampa, le mostre e i fotolibri?

– Si può ancora individuare un nesso, come suggeriva Luigi Ghirri, tra l’‘inquinamento’ visivo del paesaggio e il progredire della crisi ambientale globale? Nel lungo periodo, la cultura fotografica ha contribuito a sanare o ad aggravare queste forme di ‘inquinamento dello sguardo?

 

LUIGI GHIRRI

Luigi Ghirri nasce il 5 gennaio 1943 a Scandiano, vicino a Reggio Emilia. L’atmosfera della provincia emiliana, il clima del dopoguerra, la ripresa economica e il fermento culturale degli anni ’60, sono elementi forti che accompagnano lo sviluppo di una personalità sensibile ai mutamenti, estremamente curiosa e motivata dal desiderio di conoscenza. L’esperienza quotidiana e il legame indissolubile con i luoghi e le situazioni narrate da registi come Fellini, Antonioni o Zavattini, si arricchiscono così grazie alla volontà di approfondire e ampliare la propria visione del mondo, al fine di compiere soprattutto con l’immaginazione un grande viaggio. Parallelamente a una formazione tecnica, la passione per la lettura e per la musica, la scoperta del Rinascimento italiano e lo studio della storia dell’arte, come pure il gusto per gli oggetti e per le immagini trovate, sono senz’altro aspetti fondamentali di un percorso che lo conduce naturalmente alla fotografia come strumento per guardare dentro e oltre alle cose.

Ma proseguendo sulla stessa linea, l’assidua frequentazione del gruppo degli artisti concettuali modenesi, lo sguardo costante verso lo scenario internazionale dell’arte contemporanea e l’amore dichiarato per alcuni fotografi come Eugène Atget, August Sander, Walker Evans, Robert Frank, Lee Freedlander o William Eggleston, lo portano ben presto a concepire il proprio lavoro fotografico come un grande, appassionato progetto di ricerca espressiva, in cui la ragion d’essere di ogni immagine si misura prima di tutto sul piano dei suoi stessi contenuti. Nel 1969 l’immagine della Terra fotografata dalla navicella spaziale in viaggio per la Luna crea in lui una enorme emozione: la prima fotografia del mondo, l’immagine che conteneva tutte le immagini del mondo. A partire da qui inizia di fatto la sua ricerca contemporaneamente sono fotografie. quella che lui stesso ha definito la grande avventura dello sguardo e del pensiero. Il viaggio nell’inestricabile geroglifico del reale attraverso carte e mappe che contemporaneamente sono fotografie.

A parte l’occasione di qualche viaggio in Europa, nella maggior parte dei casi non deve spostarsi di molto per trovare un tale universo di stimoli, spesso si tratta dell’anonima periferia dietro casa, il paesaggio a lui più familiare. Anche la scelta di fotografare a colori fa in un certo senso parte del medesimo intento: fotografo a colori perché il mondo reale non è in bianco e nero.

Conosce l’artista Franco Vaccari e con lui approfondisce alcune fondamentali riflessioni intorno al ruolo della fotografia nell’ambito dell’arte contemporanea. Il 1972 è infatti l’anno in cui lo stesso Vaccari realizza alla Biennale di Venezia l’Esposizione in tempo reale n. 4: lascia su queste pareti una traccia fotografica del suo passaggio.

L’interesse in generale si sposta dall’abilità necessaria all’artista per creare manualmente l’opera verso la coincidenza tra l’opera e la realtà registrata dalla macchina fotografica, in un processo che recuperava appunto il ready-made di Marcel Duchamp e la scrittura automatica dei Surrealisti. Forte di questo confronto, si concentra essenzialmente sui contenuti del proprio lavoro e ne sviluppa la parte progettuale, ponendo al centro della sua ricerca “il guardare”, ossia la capacità al contempo razionale ed emotiva di decifrare i dati raccolti attraverso la percezione, trasformandoli in pensiero visivo. Inizia così a lavorare in modo sistematico su più fronti e a partire da questo periodo struttura le sue prime serie che prendono sempre spunto dalla visione del paesaggio urbano: nasce così Colazione sull’erba, un lavoro che si concentra sul rapporto tra natura e artificio attraverso uno sguardo ai giardini condominiali e alle villette unifamiliari della periferia.

Prosegue la sua ricerca e concepisce la serie Catalogo, il primo esempio di ricerca che lo vedrà impegnato lungo tutti gli anni ’70. Mediante la campionatura e talvolta la messa in sequenza di superfici e dettagli facenti parte del panorama costruito – muri, porte, finestre o serrande – compie un’analisi della ripetitività che caratterizza la cultura contemporanea: il significato è di depositare i dati per operare distinzioni, collegamenti, sottolineare rapporti, smontare meccanismi. Continuando a prendere spunto dal tema della superficie realizza poi Km 0.250, la riduzione fotografica in scala 1:10 del muro perimetrale dell’autodromo di Modena ricoperto di manifesti pubblicitari. Se già questi lavori gli richiedevano spostamenti minimi sul territorio, nello stesso anno con la serie Atlante arriva a realizzare il proprio “viaggio immaginario” addirittura tra le pareti di casa. Attraverso il processo di astrazione compiuto dalla fotografia, le pagine di un semplice atlante geografico perdono la loro funzione descrittiva e l’opera così concepita offre la possibilità di addentrarsi nel fantastico mondo dei segni: il reale, la sua rappresentazione convenzionale in questo caso sembrano coincidere, la formulazione del problema si sposta, da quello della significazione a quello dell’immaginazione.

La novità e la portata del suo lavoro sono note alla critica, che lo segnala in numerose recensioni. Si convince così ad affrontare pienamente la grande avventura dell’arte, abbandonando la professione di geometra. Il lavoro di geometra m’aveva insegnato molte cose sullo spazio, il paesaggio, la costruzione pietra su pietra d’un ambiente a partire da un progetto. Il progetto è un dato che permette di strutturare il lavoro d’un individuo. E’ necessario avere un progetto sia per la costruzione di una casa quanto e soprattutto per la realizzazione di un’opera d’arte (…) Soltanto all’interno di questo è consentito il rischio e la libertà del gesto”.

Nel corso dello stesso anno realizza un nuovo lavoro, Infinito. Una sorta di album autobiografico del cielo: 365 immagini di cielo fissate giorno dopo giorno e montate alla fine dell’anno secondo una fitta texture che non segue l’ordine cronologico, offrendogli la possibilità di essere ricomposta all’infinito.

Inizia a prospettarsi per lui un lungo periodo particolarmente denso di eventi, sia per quanto riguarda lo studio e la realizzazione di nuovi lavori, sia rispetto allo sviluppo dell’attività espositiva. L’interesse per il tema del paesaggio è via via crescente: la lettura dei luoghi appartenenti a un’Italia meno nota, fuori dalle piste del turismo convenzionale, sembra corrispondere con la ricerca di una identità, individuale e collettiva. Quello che ho fatto tra il 1970 e il 1975, fotografando i margini delle città antiche, o prevalentemente paesi senza dignità storica e geografica, è stata una sorta di ricomposizione di album di famiglia del mio e del nostro esterno. Prendono così corpo a partire da quest’anno le serie Vedute e Italia ai lati, a cui dedica una mostra personale presso la Fotogalerie del Forum Stadtpark di Graz, in collaborazione con la galleria Il Diaframma di Milano: il catalogo pubblica un testo di Arturo Carlo Quintavalle. Espone una personale dal titolo Luigi Ghirri alla Canon Photo Gallery di Ginevra: il catalogo presenta un testo di Gad Borel-Boissonas.

Uscendo appena di casa e girando tra le bancarelle del mercatino dell’antiquariato di Piazza Grande, intraprende un percorso ancora nuovo nel mondo delle immagini e dei segni, concependo così la serie Still-Life. Pitture, fotografie incorniciate, cataloghi, manoscritti, vecchie cose affastellate, si propongono al suo sguardo trasformandosi in “luoghi” in cui cogliere possibili stratificazioni: anche gli oggetti che sembrano essere interamente descritti dalla vista possono essere, nella loro rappresentazione, come le pagine bianche di un libro non ancora scritto.  Convinto dall’amico Calude Nori, che a Parigi aveva la galleria e casa editrice Contrejour, insieme a Paola Borgonzoni e Giovanni Chiaramonte fonda la casa editrice Punto e Virgola, con l’idea di sviluppare un progetto editoriale importante, incentrato sulla cultura fotografica italiana. Nel corso dell’anno espone in una mostra collettiva con catalogo dal titolo L’occhio, la macchina, la realtà presso l’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo.

Con la casa editrice Punto e Virgola pubblica il suo primo libro, Kodachrome. In esso scrive il suo primo testo critico come prefazione di una monografia composta in forma narrativa, in cui le immagini proposte derivano da progetti sviluppati nei suoi primi otto anni di lavoro, attingendo soprattutto da Paesaggi di cartone ma anche dalle Fotografie del periodo iniziale. E’ con Kodachrome che comincia a utilizzare il suo archivio come “serbatoio di immagini”. Ho terminato questa serie con frammenti d’immagini trovate camminando per strada, e non casualmente nell’ultimo appare la scritta su un giornale accartocciato sull’asfalto “come pensare per immagini”. In questa frase è contenuto il senso di tutto il mio lavoro. Alla Biennale di Venezia espone nella collettiva L’immagine provocata [ catalogo della Biennale, Electa-La Biennale, Milano-Venezia 1979.

Avviene una svolta fondamentale per la sua attività di ricerca: un’importante mostra antologica del suo lavoro presso la sede espositiva dell’Università di Parma, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini. Con il titolo Vera Fotografia, viene elaborato un progetto ambizioso che raccoglie tutti i progetti realizzati sino a quella data, offrendo al pubblico la visione di circa 700 fotografie organizzate in 14 sequenze narrative e, per ogni sezione, uno scritto prodotto dallo stesso autore, che lo concepisce come momento di indispensabile messa a fuoco della propria riflessione teorica [Luigi Ghirri, Università di Parma – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Feltrinelli, Milano 1979]

 Mentre porta a termine la ricerca Still-Life e dopo un breve passaggio attraverso la serie Geografia Immaginaria (1979-80) approda in un nuovo lavoro, Topographie-Iconographie. Il primo periodo della sua ricerca, quello più “concettuale”, è ormai concluso e questo lavoro si prospetta come un importantissimo anello di congiunzione con una nuova stagione espressiva, quella in cui si concentra sull’idea di fotografia come “linguaggio”, arrivando a interpretare il valore simbolico dei luoghi. I luoghi e gli oggetti che ho fotografato sono vere e proprie “zone della memoria”, ovvero località che dimostrano più di altre che la realtà si è trasformata in un grande racconto.

Le esperienze che hanno verificato il rapporto tra arte e fotografia lungo gli anni ’60-’70 sono state di fatto determinanti nella definizione del suo statuto espressivo. Ma superata la necessità di mettere a fuoco la propria posizione, all’inizio degli anni ’80 comincia ad agire con maggiore libertà, lasciandosi ampiamente guidare nella sua ricerca dal valore emozionale dell’immagine e dal desiderio di apertura verso nuove possibilità di relazione interdisciplinare. Anche io non so dire se mi hanno illuminato di più i paesaggi musicali e poetici di Dylan, le sculture-architetture di Oldenburg, le visioni di Robert Frank o Friedlander, il rigore etico di Evans, o se invece sono state le cosmogonie di Brueghel, i fantasmi felliniani, le vedute degli Alinari, i silenzi di Atget, la precisione dei fiamminghi, la purezza di Piero della Francesca o i colori di Van Gogh. Secondo questo approccio, non tarda dunque a instaurare un rapporto con varie figure di intellettuali, con cui poter condividere le proprie riflessioni. Conosce infatti architetti, urbanisti, filosofi, convinti dell’esigenza di creare una nuova iconografia del paesaggio italiano, con un’attenzione crescente rivolta agli spazi dell’habitat contemporaneo, caratterizzato da un complesso connubio di tradizione e modernità. Invitato dall’architetto Vittorio Savi alla rassegna espositiva Paesaggio. Immagine e realtà presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, realizza la sua prima lettura di un paesaggio post-urbano, quello della valle del Po. Intitola emblematicamente questo lavoro Introduzione, scrivendo lui stesso nel catalogo sull’impossibilità di mantenere ormai un distacco con le cose fotografate e sottolineando l’avvenuto incontro con un paesaggio “biografico”: questi luoghi sono anche il mio luogo, la mia stanza [Aa.Vv., Paesaggio. Immagine e realtà, catalogo della mostra, Electa, Milano 1981].

All’interno del medesimo percorso, anche l’impulso dato dalle prime committenze pubbliche comincia giocare un ruolo fondamentale, offrendo l’opportunità di sviluppare nuove ricerche. L’agenzia Young e Rubicam di Milano gli affida l’incarico di fotografare Napoli per conto dell’Ente Provinciale per il Turismo, una campagna promozionale finalizzata a rinnovare la visione del territorio. Un’occasione per lavorare su luoghi noti, a cui tuttavia si accosta con l’intento di ottenere un risultato ben lontano dallo stereotipo dell’illustrazione turistica, andando come sempre alla ricerca di segni nel paesaggio, tracce della storia, “zone della memoria” che solo l’immaginazione può restituire al presente [Casare De Seta, a cura di, Napoli ’81. Sette fotografi per una nuova immagine, catalogo della mostra, Electa, Milano 1981]. E’ con le fotografie realizzate per queste occasioni che inizia man mano a costruire la grande serie che chiamerà Paesaggio Italiano(1980-1992). 1

E’ invitato alla Photokina di Colonia, dove nell’ambito della mostra Photographie 1922-1982 viene presentato come uno dei fotografi più significativi del XX secolo [Manfred Heiting, a cura di, Fotografie 1922-1982, Photokina, Colonia 1982]. In questo stesso periodo, così denso di impegni e riconoscimenti, continua comunque incessante lo studio. Nel saggio di Christian Norberg-Schulz pubblicato nel 1979 da Electa con il titolo Genius loci. Paesaggio Ambiente Architettura – dove l’autore individua appunto nel “genius loci”, nello “spirito del luogo”, la via più fertile per far sì che l’architettura possa ristabilire un contatto autentico con le persone – trova ad esempio interessantissimi punti di contatto con il proprio pensiero. La sua ricerca sui luoghi e sul senso dell’abitare si manifesta infatti come un possibile modo per cogliere all’interno del paesaggio contemporaneo la presenza di quello stesso “spirito”, affrontando con il suo sguardo l’ambiguità e la complessità dell’esistente al fine di fornire un metodo di visione. Ricercare una fotografia che instauri nuovi rapporti dialettici e che sia anche un possibile metodo per organizzare lo sguardo, affinché questo non rimanga più inerte di fronte ad un esterno sempre più incomprensibile e complesso (…) Ricercare una fotografia che sia in grado di costruire immagini, figure, affinché fotografare il mondo sia anche un modo per comprenderlo. Animato da simili riflessioni e concluso il lavoro Topographie-Iconographie (1978-82), si dedica a una ricerca sistematica che lo assorbe in vario modo per l’intero decennio. Si reca nuovamente nel sud dell’Italia per compiere una lettura del paesaggio sulla base di un incarico della Regione Puglia.

Le opportunità offerte dalle committenze sono sempre più frequenti e favoriscono la sua attività di ricerca. Nell’arco dell’anno avviene infatti un incontro particolare con l’architettura: Vittorio Savi lo mette in contatto con Pierluigi Nicolin, Alberto Ferlenga e con la redazione della rivista “Lotus international”, che gli affida la lettura fotografica di un’importante opera di Aldo Rossi, il cimitero S. Cataldo di Modena. Lettura subito pubblicata con ampio rilievo [in “Lotus International”, n. 38, 1983, pp. 36-43] ma sulla quale egli amerà ancora ritornare in tempi successivi, inserendo parte di questo lavoro anche all’interno della serie Paesaggio Italiano. In virtù di questo suo primo contributo alla rappresentazione dell’opera degli architetti, si modifica sostanzialmente il modo di considerare il rapporto tra fotografia e architettura, che mentre prima poteva dar luogo a delle belle immagini ora invece sviluppa delle vere e proprie interpretazioni critiche della complessità di un luogo:(…) l’architettura di Rossi mi dà questa sensazione di meraviglia (…) Alla fine quello che mi affascina nella sua opera (…) sono le memorie, le storie, i nessi, le invenzioni e le apparenze che costituiscono i diversi strati del fare le cose e delle nostre percezioni. A partire da questa prima esperienza, la sua ricerca espressiva è man mano condivisa dal mondo della cultura architettonica, tanto che numerose sono le riviste e le monografie che pubblicano il suo lavoro. In merito al tema del paesaggio, pubblica le sue fotografie realizzate a Capri tra il 1980 e il 1981 [Casare De Seta, Capri, ERI, Torino 1983].

Considerando il ruolo da lui assunto all’interno della fotografia italiana degli anni ’80, bisogna senz’altro ricordare la sua grande vocazione didattica, mirata a trasformare la fotografia stessa in uno strumento di reale rinnovamento della percezione. Seguendo tale ambizioso obiettivo, reputa innanzitutto importante condividere con altre figure di artisti e intellettuali gli esiti delle sue riflessioni, arrivando a sviluppare in modo congiunto progetti di grande portata. Il successo riscontrato dalla mostra Penisola, una linea della fotografia italiana a colori è l’incentivo che gli permette di ipotizzare un più ampio progetto dedicato alla nuova fotografia italiana di paesaggio. Assieme a Gianni Leone e Enzo Velati organizza infatti Viaggio in Italia, un libro e una mostra itinerante che parte da Bari e arriva a Reggio Emilia, vedendo la partecipazione di numerosi autori italiani e di alcuni stranieri. Il senso dell’operazione è fare un punto sull’immagine dell’Italia, a seguito delle profonde trasformazioni subite dal territorio negli anni ’60-’70. E attraverso la metafora del viaggio, l’idea è quella di affermare una nuova strategia dello sguardo che – lasciato da parte ogni “luogo comune” dell’iconografia tradizionale – andasse alla ricerca di un paesaggio autentico, il paesaggio quotidiano. Inizia ad insegnare “Storia e tecnica della fotografia” all’Università di Parma.

La sua ricerca sul tema dell’architettura e del paesaggio è sempre più intensa e affronta nuovi punti di approfondimento. Su invito del Ministero della Cultura francese, fotografa la reggia e i giardini di Versailles. In questa occasione realizza una serie di immagini che segnano una chiara evoluzione verso il periodo più maturo del suo lavoro. Lo studio della luce e del colore diventano elementi costitutivi essenziali nella lettura e nell’interpretazione di quei luoghi, proponendosi come l’esito di un’attenzione particolare ed entrando a far parte delle sue stesse riflessioni teoriche. E’ la luce la sostanza reale che dà forma alle mie immagini (…) La luce è per me il vero “genius loci” (…) Attraverso il mio lavoro ho scoperto che esiste comunque un momento particolare in cui attraverso la luce finisce per rivelarsi sulla superficie del mondo anche qualcosa di apparentemente invisibile. La sua idea di paesaggio è dunque restituita anche attraverso il controllo dei delicati equilibri luminosi e cromatici presente nelle sue fotografie, che se da un lato richiamano l’atmosfera sospesa dei Vedutisti, dall’altro suggeriscono un nuovo possibile percorso di ricerca all’interno della fotografia contemporanea

Aldo Rossi lo invita a realizzare una interpretazione di alcuni luoghi della cultura veneta, scelti come tema del concorso internazionale della III Biennale di Architettura di Venezia. Vittorio Savi gli affida l’incarico di fotografare il fabbricato viaggiatori della Stazione di Firenze, opera di Giovanni Michelucci.

L’ampio successo riscontrato dall’operazione Viaggio in Italia lo convince a proporre al Comune di Reggio Emilia e alla Regione Emilia Romagna un progetto di ricerca dedicato alla via Emilia: un progetto corposo e articolato, in cui la fotografia riveste soltanto una parte, a fianco della ricerca letteraria, cinematografica, urbanistica, economica e ambientale. L’idea è di rileggere l’antica strada di origine romana e il territorio che la attraversa per coglierne l’immagine trasformata sotto la spinta dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, seguendo la suggestione di un testo di Bob Dylan, Highway 61. Oltre all’elaborazione del progetto, coordina la ricerca fotografica a cui sono chiamati a partecipare, insieme a lui, vari autori italiani e stranieri. La mostra dal titolo Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio, a cura di Giulio Bizzarri ed Eleonora Bronzoni, è presentata Bologna, per poi spostarsi a Reggio Emilia, a Ferrara e quindi circuitare presso l’Istituto Italiano di Cultura di Utrecht, Edimburgo, Mosca, Heidelberg, Amburgo, Monaco di Baviera, Bruxelles, Strasburgo e Parigi .

Il catalogo della mostra è accompagnato dal volume Scritture nel paesaggio che contiene i racconti degli scrittori coinvolti nel progetto, con prefazione di Italo Calvino. Analogamente a quanto aveva fatto in seguito ad altre situazioni progettuali, raggruppa le sue fotografie nella serie che chiama appunto Esplorazioni sulla via Emilia (1983-86) ma alcuni di questi lavori andranno anche a confluire nella serie Paesaggio Italiano. Nel corso dello stesso anno, partecipa alla collettiva italo-francese Trouver Trieste che si tiene a Parigi al Centre Pompidou. Espone alla Photokina di Colonia 50 Jahre Moderne Farbfotografie/50 Years Modern Color Photography 1936-1986, presentando opere dedicate al tema del paesaggio urbano:  Alla XVII Triennale di Milano, in occasione della mostra Il Progetto domestico, sviluppa un nucleo di lavori dedicati alle installazioni degli architetti, fra cui rientrano le fotografie del Teatro domestico di Aldo Rossi. Seguendo la tournée dell’amico Lucio Dalla, si reca per la prima volta negli Stati Uniti, a Boston e a New York. Realizza così numerose fotografie che entrano nel corpus delle sue opere.

Termina il lavoro sviluppato per la grande monografia di Aldo Rossi, in cui la modalità ormai consolidata è “raccontare” l’opera dell’architetto anche attraverso lo sguardo dell’artista [Alberto Ferlenga, a cura di, Aldo Rossi. Architetture 1959-1987, Electa, Milano 1987].

Alla XVII Triennale di Milano espone nella collettiva Le città immaginate. Un viaggio in Italia. Nove progetti per nove città, a cura di Vittorio Magnago Lampugnani e Vittorio Savi. Nel catalogo, insieme alle fotografie, viene pubblicato il suo testo Un cancello sul fiume, uno scritto intimista di grande intensità, da cui emerge la direzione che sta assumendo la sua ricerca nella lettura del senso di un luogo (…) Zavattini scrive che la malinconia è originaria del Po, che altrove si tratta di imitazioni, e sottolinea che appena si arriva da queste parti gli sembra di varcare la frontiera del grigio, o meglio entrare in qualcosa di impreciso. Malinconia e imprecisione. Credo siano proprio questi i termini più appropriati. La malinconia è il cartello indicatore di una geografia cancellata, ed è probabilmente il sentimento della distanza che ci separa da un possibile mondo semplice, sapendo che questo è ormai un aggettivo da coniugare assieme ai ricordi (…) Imprecisione. Perché l’orizzonte confonde quasi sempre cielo e terra, perché le campagne abitano anche la città e i paesi (…) perché le strade sembrano andare sempre nello stesso punto e quindi in nessuna parte [Luigi Ghirri,

Sempre in occasione della XVII Triennale di Milano, nell’ambito della rassegna internazionale Le città del mondo e il futuro delle metropoli. Oltre la città, la metropoli, è invitato a curare la sezione fotografia, mentre Germano Celant cura la sezione arte. Col titolo Atlante fotografico sulla metropoli, la mostra diventa un’occasione per delineare una mappa dei fotografi più rappresentativi della scena urbana, tra passato e presente: O. Winston Link, Walker Evans, André Kertesz, Robert Doisneau, William Klein, Robert Frank, Lee Friedlander, Diane Arbus, Luigi Ghirri, George Tice, Art Sinsabaugh, Nick Nixon, Joel Meyerowitz, William Eggleston, Stephen Shore, William Clift, Joel Sternfeld, Ugo Mulas, Klaus Kinold, Giovanni Chiaramonte, Andrea Cavazzuti, Fulvio Ventura.

Ma come sempre la mostra è per lui anche un’occasione di riflessione teorica. Nel testo introduttivo Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti egli indaga sul rapporto tra la fotografia e la dimensione spazio-temporale della città e della metropoli [Luigi Ghirri, a cura di, Atlante fotografico sulla metropoli, in Georges Teyssot, a cura di, Le città del mondo e il futuro delle metropoli. Oltre la città, la metropoli, Electa – XVII Triennale, Milano 1988, pp. 21-68 e pp. 232-234]. Ancora in qualità di curatore, organizza due mostre fotografiche per il Comune di Reggio Emilia.

Nello stesso anno, prende parte al progetto L’arc Lemanique. Vingt et un récits sur le lieu, che vede ancora un confronto tra letteratura e fotografia nell’interpretazione di un luogo, il lago di Ginevra. La mostra allestita presso il museo Place de l’Ile di Ginevra si sposta poi al Musée de l’Elysée di Losanna [Beppe Sebaste, Jacques Berthet, a cura di, L’arc Lemanique. Vingt et un récits sur le lieu, catalogo della mostra, Favre e L’Hebdo, Lausanne 1988]. Accanto a un’intensa attività teorica, altrettanto denso è il lavoro di “lettura” dell’architettura e incalzante è il rapporto con gli editori. Si reca a Lubiana per fotografare l’opera di Jože Plečnik per una monografia che esce nel 1990 per le edizioni Electa. Nel frattempo collabora sempre più frequentemente con le riviste di architettura e di design. Per le edizioni Fabbri esce il volume Il Palazzo dell’arte che raccoglie una sua interpretazione di alcuni spazi museali italiani [Arturo Carlo Quintavalle, Il Palazzo dell’Arte, Gruppo Editoriale Fabbri, Milano 1988]. Le fotografie appartenenti a questo nucleo completano una sua personale ricerca sugli spazi museali realizzata in varie occasioni nel corso degli anni ’80 e confluita appunto nella serie Il Palazzo dell’Arte (1980-88).

In questi anni la ricerca di una nuova visione si esprime sempre più come un viaggio all’interno della propria esperienza esistenziale. In questa chiave concepisce dunque il progetto Paesaggio Italiano, una monografia pubblicata in occasione della mostra tenuta a Reggio Emilia, portata poi a Mantova e quindi circuitata nell’America del Sud presso varie sedi dell’Istituto Italiano di Cultura [Luigi Ghirri, Paesaggio italiano/Italian landscape, “Quaderni di Lotus/Lotus Documants”, Electa, Milano 1989].

Nel definire l’inscindibile connubio tra paesaggio esterno e paesaggio interno, visto come “luogo dell’interiorità”, questo progetto si propone infatti come momento di fondamentale espressione della sua poetica. Questo lavoro sul paesaggio italiano vorrei che apparisse un po’ così (…) una cartografia imprecisa, senza punti cardinali, che riguarda più la percezione di un luogo che non la sua catalogazione o descrizione, come una geografia sentimentale dove gli itinerari non sono segnati e precisi, ma ubbidiscono agli strani grovigli del vedere.

A tracciare questa “geografia sentimentale” è in sostanza una particolare rilettura della propria fotografia di paesaggio, in cui accosta alle sue fotografie altre immagini, alcuni suoi testi e vari contributi critici, suggerendo così un’importantissima chiave interpretativa.

All’interno del libro si trova infatti un’istantanea di Walker Evans del 1936, un fotogramma della sequanza finale di Tempi Moderni di Chaplin, la copertina di The Freewheelin’ di Dylan, la Costruzione della Torre di Babele di Brueghel e poi ancora cartoline illustrate o disegni per l’infanzia. Alla sua fotografia realizzata nella camera da letto dell’amico scrittore Daniele Benati accosta la stanza di Van Gogh e quella di Magritte. Con questo “libro d’artista” ciò che egli intende in sostanza esplicitare è il meccanismo della visione su cui è basata la sua opera, in cui al sedimentarsi della memoria egli attinge per associazioni d’idee innescando così una nuova possibilità immaginativa, come se una narrazione casuale e sconnessa trovasse misteriosamente una sua logica. Questa è sostanzialmente la ragione per cui le sue serie si propongono sempre più come “sistemi aperti”, passibili di interconnessioni. Ma questa è anche la ragione per cui egli sogna di realizzare un grande slot machine come possibile soluzione per un catalogo generale della sua opera.

Al di là di tale progetto, Paesaggio Italiano (1980-92) è comunque il titolo di una dei suoi gruppi di opere più importanti, in cui come sempre fa convergere numerosi altri lavori. Nel corso dello stesso anno ultima la serie Il bollettino per i naviganti (1972-89), un lungo lavoro dedicato alla visione del Mare Adriatico. Completa inoltre il lavoro Strada provinciale delle anime (1988-89), un gruppo di fotografie che interpretano l’atmosfera sospesa del delta del Po, seguendo l’ipotesi di un film di Gianni Celati.

Realizza ancora una monografia per Aldo Rossi [Gianni Braghieri, a cura di, Aldo Rossi, Zanichelli, Bologna 1989]. Fotografa per la Meta Memphis opere di design progettate da artisti contemporanei e con questi lavori presenta una mostra personale presso la Fondazione Querini Stampalia di Venezia [Virginia Baradel, Bruno Corà, Marco De Michelis, Ad usum dimorae. Collezione Meta Memphis 1988-89, catalogo della mostra, De Agostini, Novara 1989]. Seguendo le ragioni della propria poetica, mette a punto un nuovo programma didattico sulla fotografia e insegna all’Università del Progetto di Reggio Emilia. Compie il suo secondo viaggio a New York, per fotografare lo show room di Bulgari [Paul Goldberger, Richard Reid, 730 Fifth Avenue, New York, supplemento della rivista “L’Arca”, n. 39, 1990].

Grazie alla committenza del Gruppo Riello, a cavallo dell’anno realizza un altro libro a cui si unisce una mostra itinerante: Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano. Anch’esso concepito come “libro d’artista”, è un racconto privo di protagonisti sul paesaggio della Pianura Padana tra Veneto, Emilia e Lombardia, in cui ripercorrendo i luoghi fotografati egli non rispetta la dislocazione topografica, ma segue ancora una volta un itinerario tutto calato nella memoria associativa. Un progetto di lettura del paesaggio che sviluppa insieme a Gianni Celati, il cui scritto accompagna con sguardo di narratore il lavoro dell’amico fotografo. Malinconia, imprecisione del ricordo, senso di sospensione e d’incanto. Sono questi i sentimenti che animano la lattura del paesaggio, consolidando così un paradigma interpretativo che va ben oltre i confini dei luoghi attraversati. [Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano, Feltrinelli, Milano 1989].

Anche le fotografie afferenti a questo lavoro innescano la possibilità di creare un nuovo gruppo di opere: nasce la serie Il profilo delle nuvole (1980-92). In questo periodo, nello spirito di simili esperienze progettuali che lo avvicinano ancor più a una lettura intimista dei luoghi, sviluppa due lavori fondamentali rispetto al tema del “paesaggio interiore”. Fotografa gli studi di Giorgio Morandi e di Aldo Rossi, affrontando così l’analisi profonda del vissuto esistenziale di uno spazio. Questo tipo di ricerca dà origine a due importanti nuclei di opere: Atelier Morandi (1989-90) e Studio di Aldo Rossi (1989-90).

Ripropone una selezione di immagini di fotografi contemporanei per il volume Atlante Metropolitano, in cui sono comprese anche le sue fotografie su New York e Boston [Pierluigi Nicolin, a cura di, Atlante Metropolitano, “Quaderni di Lotus/Lotus Documents”, n. 15, Electa, Milano 1991]. Pubblica il lavoro sulla Reggia di Caserta, che aveva realizzato l’anno precedente [Cesare De Seta, Il Real Palazzo di Caserta, Guida Editori, Napoli 1991].

Realizza il volume Viaggio dentro un antico labirinto, una lettura del paesaggio italiano attraverso la storia dell’arte e la letteratura. E’ il suo ultimo libro. [Arturo Carlo Quintavalle, Luigi Ghirri, Viaggio dentro un antico labirinto, D’Adamo, Bergamo 1991]. Espone le sue fotografie nella mostra Aldo Rossi par Aldo Rossi, architecte al Centre Pompidou di Parigi. Nel frattempo, inizia a lavorare al progetto di un libro sugli interni di Giorgio Morandi, tra l’atelier di Bologna e lo studio nella casa di Grizzana, che lo affascinano per l’atmosfera straordinaria, la loro magica immobilità. Sulla scia di questa suggestione, progetta due lavori che gli avrebbero permesso di approfondire ulteriormente la sua ricerca introspettiva: uno dedicato alla natura morta e l’altro alle “case sparse”, le case isolate che punteggiano l’orizzonte della pianura padana. L’ultima immagine rimasta impressa sulla sua pellicola è un’immagine di nebbia nella campagna. Malinconia e imprecisione. Si spegne improvvisamente nella sua casa di Roncocesi il 14 febbraio 1992.

Fondazione Luigi Ghirri

 

 ph Massimo Pentinetti Morandi

 

“La televisione al 99%, è piena di facce. Quello che abbiamo attorno non viene mai rappresentato.
 Questa negazione dello spazio in cui viviamo credo che sia un dato storicamente molto significativo: all’incapacità di rapportarci con lo spazio, con l’ambiente, corrisponde un’assenza di rappresentazione, e in qualche misura un atteggiamento di incuria nei confronti delle problematiche ambientali, ecologiche.”

“Non è necessario essere Calvino per scrivere un diario di viaggio. Il problema arriva quando alla fotografia si chiede qualcosa in più”.

Luigi Ghirri