NON NEL MIO GIARDINO…

NON NEL MIO GIARDINO…

ELENA CROCE

Cofondatrice Italia Nostra

(Napoli 1915 – Roma 1994), è stata una traduttrice, scrittrice, direttrice e animatrice di riviste culturali. In fase di riscoperta è il contributo che ella ha dato alla costruzione del movimento ambientalista in Italia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del ‘900. In questo articolo proveremo a centrare la nostra narrazione sui piani attraverso cui Croce ha portato avanti la sua “guerra per l’ambiente”: la partecipazione concreta alle lotte ambientali, la divulgazione delle battaglie e delle relative problematiche attraverso la parola scritta e la fondazione di comitati e associazioni ambientaliste come Italia Nostra.

In assenza di specifici lavori precedenti, segnaliamo che la maggior parte dei materiali usati sono contenuti presso l’archivio di Elena Croce, custodito presso la «Fondazione Biblioteca Benedetto Croce». L’esame dell’archivio, infatti, ha portato alla scoperta di un’ampia e ricca documentazione relativa alle tematiche ambientali. Parole chiave: Elena Croce, ambientalismo, ambiente, donne, ecologia, tutela, paesaggio, patrimonio, beni comuni.

L’esperienza diretta ha avuto un’importanza determinante per la formazione della coscienza ecologica di Elena Croce. Figlia del filosofo italiano Benedetto Croce (a cui si deve la prima legge italiana per la tutela del paesaggio), appartenente a una delle famiglie più prestigiose di Napoli, la sua casa è un importante crocevia culturale attraverso cui passano alcune delle più importanti figure intellettuali europee, da Thomas Mann a José Ortega y Gasset. Il padre sarà uno dei pochi intellettuali italiani a poter esprimere la propria contrarietà al fascismo senza subire persecuzioni fisiche. Elena e le sue sorelle, Alda, Silvia e Lidia, sono da lui avviate allo studio della letteratura, diventando traduttrici da lingue classiche e moderne. A vent’anni Elena si laurea in giurisprudenza con una tesi sui Parlamenti aragonesi, ma continua a intrattenere relazioni culturali di grande spessore, come quella con la filosofa spagnola Maria Zambrano (Croce, Zambrano 2015) – con cui cura negli anni ’60 i Quaderni di pensiero e di poesie. Nel 1948 fonda insieme al marito Raimondo Craveri – con cui condivide anche l’impegno antifascista – la rivista letteraria Lo spettatore italiano. Pubblica anche alcune opere monografiche: le biografia di Silvio Spaventa, Salvatore di Giacomo e quella di Francesco De Sanctis (quest’ultima curata insieme alla sorella Alda). A Elena va il merito di aver segnalato all’amico Giorgio Bassani, che lavorava nella casa editrice Feltrinelli, il manoscritto de Il Gattopardo di Gioacchino Lanza Tomasi di Lampedusa, che verrà pubblicato dalla casa editrice nel 1958 dopo essere stato precedentemente rifiutato da Elio Vittorini. Ancora, per dare un’idea della vastità dei suoi campi d’azione e d’interesse, nel 1975 a Napoli fonda insieme a Gerardo Marotta, Enrico Cerulli e Pietro Piovani e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nato sull’esempio dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici creato dal padre. La sua personalità di intellettuale, la sua attività di umanista, di scrittrice, di traduttrice, di direttrice e promotrice di riviste culturali fa sistema con la figura di attivista ambientale. Nella distruzione del territorio dovuta alla speculazione edilizia, Croce rinviene un problema di natura culturale: dietro la razzia di edifici storici, borghi, valli, campi coltivati, litorali immacolati, piccole e grandi architetture, c’è un fenomeno di costume che riguarda l’avvento dell’era dei consumi. Scrive nel 1979 che «i consumi di lusso, la seconda e terza casa, la falsa prosperità associata a un falso progresso sociale, che veniva irresponsabilmente prospettata» alle nuove masse, rappresentano una dittatura ideologica subdolamente imposta da una «micidiale speculazione che ha promosso …quei consumi, sino a portare il massimo danno alla dignità, prima che estetica, umana» (Croce, 2016:122). Il «padrone assoluto, tirannico – secondo la studiosa – era la speculazione edilizia» vera beneficiaria dell’ideologia del consumo. Con il termine “speculazione” Elena Croce intendeva una classe imprenditoriale – tra cui figurava perfino «la Chiesa… la più veneranda fra gli speculatori edilizi» (Croce, 2016:42) – che usava la bandiera dello sviluppo e del benessere per distogliere l’attenzione dalla propria corsa al profitto: «l’argomento inoppugnabile del bisogno di case e di impianti industriali (di servizi, scuole, ospedali, parchi pubblici che offrissero sfogo e respiro, non se ne parlava: si provvedeva bensì alacremente a tutto ciò che concerneva consumi di lusso e vacanza), della richiesta di tetto e lavoro, si era istantaneamente convertito in arma micidiale nelle mani degli speculatori» (Croce, 2016:39). La posizione della studiosa contro il consumismo è una posizione che potremmo definire “pasoliniana”: nel 1975 Pasolini definiva la società dei consumi come un nuovo «Potere», un secondo fascismo «americanamente pragmatico», il cui «fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo». (Pasolini, 2008) L’omologazione culturale, portata avanti da questo «Potere», è stata tradotta dalla speculazione edilizia nelle nuove forme del paesaggio. Megalopoli, ripetizione identica di materiali e forme architettoniche scadenti e identiche in ogni parte del mondo riflettono l’appiattimento culturale che la cultura di massa ha prodotto tanto nella cultura popolare quanto nell’alta cultura. La nostra cultura, scrive Elena Croce nel 1979, «è prima di tutto consumista: i bisogni economici vengono “approvati e appagati”» e in secondo luogo «”strutturalmente   i bisogni vengono creati “per ingrandire il mercato e aumentare la produzione”. […] Il valore che si impone è il progresso della tecnica anche là dove noi, in dichiarazioni soggettivamente oneste, gli anteponiamo valori come la libertà individuale o la giustizia e solidarietà sociale» (Croce, 2016:110). I «grandi mali sociali» del secolo si incarnano nell’«agente immobiliare, che è il personaggio più avido di profitto immediato del mondo economico» e nel «feticismo per il progresso tecnologico, ad ogni costo. A costo, anche, della salute e del benessere dell’umanità, del mondo naturale di cui questa ha bisogno» (Croce 1967).

Non nel mio giardino .

Il suo interesse alla difesa del patrimonio culturale e ambientale ha origine alla fine degli anni Quaranta, da un episodio che ella stessa definirà come «una faccenda privata nella quale intervenivano però delle ragioni, se non vistose, molto precise di interesse pubblico. Devo riconoscere che le circostanze erano abbastanza singolari, e che non si sarebbero mai prodotte per mia personale iniziativa, anche perché io ero altrimenti impegnata, nel senso di quell’engagement che è oggi già un vestito dei nonni (l’abito del primo dopoguerra)» (Croce, 2016:45). Come altri militanti che hanno preso parte alle prime iniziative di protesta ed opposizione, spiega Croce, ella non proviene da studi storico artistici, né appartiene «al numero dei conoscitori appassionati delle bellezze naturali: non avevo cioè nessuna ragione di considerarmi qualificata per compiti di tutela che non sembravano desiderare l’apporto di dilettanti. E infine e soprattutto, come molti altri, fino all’inizio degli anni Cinquanta, non mi ero mai posta il problema della preservazione di quelli che si sarebbero poi definiti come i “beni culturali ed ambientali”» (Croce, 2016:38). «La formazione dei primi militanti contro la distruzione dell’“ambiente” – scrive nel 1979 – le esperienze che li hanno condotti, verso la fine degli anni Cinquanta, ad associarsi nelle prime iniziative di denunzia degli abusi della speculazione privata, e delle carenze dell’amministrazione pubblica, sono presso a poco analoghe» (Croce, 2016:37).

Sono singole vicende personali a trasformare persone provenienti da ambiti accademici e lavorativi diversi in militanti in difesa dell’ambiente, accomunati dall’aver sperimentato empiricamente che senza la partecipazione dei cittadini il meccanismo istituzionale della tutela era insufficiente nel difendere il paesaggio e il patrimonio storico-artistico dalle aggressioni della speculazione.

Così, continua Croce, «anziché tentare la faticosa definizione ideologica di un fenomeno la cui validità risiede innanzi tutto nel suo carattere quasi prepotentemente istintivo, vorrei limitarmi ad esporre il mio . Alla fine degli anni Quaranta, la madre, la piemontese Adele Rossi, acquista in una strada molto panoramica di Napoli una villa ottocentesca. L’immobile non versa in buone condizioni: le truppe americane vi avevano soggiornato durante la guerra. Tutto riporta i segni dell’incuria. Il giardino, «costruito su di un altissimo bastione, con ardimento e dispendio d’altri tempi, era ridotto a uno spiazzo di terra sporca, dove di verde c’erano solo più i belli e grandi alberi» i quali «fornivano legna a portieri di ventura, per il fornello su cui cucinavano all’aperto, come zingari» (Croce 2016:47). In breve tempo villa e giardino rinascono. Tutto sembra procedere per il meglio, quando il proprietario di una villa coeva, sottostante a quella dei Croce, decide – come una sorta di Quinto di calviniana memoria   di vendere il proprio giardino a una società di costruzioni edilizie. Nell’antico giardino, al di sotto della villa dei Croce, sarebbe sorto un grande condominio abusivo. La famiglia Croce, ormai tutta al femminile in seguito alla morte del filosofo, incomincia una battaglia legale per fermare l’abuso edilizio. Spinta dalla madre, Elena, che in quegli anni vive a Roma, inizia un vero e proprio «pellegrinaggio a Ministeri, direzioni generali, tutta la gamma degli organi dell’amministrazione» (Croce 2016:50). Nonostante l’accertata illegalità dell’intera costruzione, dopo circa dieci anni di battaglie legali le Croce riescono a ottenere una vittoria parziale, che tuttavia negli anni del laurismo e delle “mani sulla città” appariva quasi un evento eccezionale: l’abbattimento degli ultimi due piani del palazzone di cemento. La storia della villa non è una vicenda drammatica se paragonata alle storie di militanza ambientale nate in seguito a disastri come quello di Seveso  o quelle più recenti della terra dei fuochi in Campania . Grazie alla sua dimensione intellettuale ella riflette analiticamente sulla propria storia individuale, in cui l’episodio della villa assume un’importanza cruciale: è grazie ad esso, grazie cioè a una «vicenda personale» che la scrittrice comprende la necessità di dedicare le proprie energie al piano organizzativo della militanza ambientalista. «A farmi toccare con mano la realtà – scrive nel 1979 – e cioè a farmi scoprire, costringendomi ad un’indagine analitica, in cui non mi sarei altrimenti avventurata, che per ciò che riguardava la tutela del patrimonio ambientale, si trattava in realtà di ben altro che di un congegno inceppato, anche qui il mio caso è  comune a molti altri, sarebbe stata una vicenda personale» (Croce, 2016:45). Questa riflessione sull’importanza del personale capovolge il discorso comune che vede nella difesa di ciò che è prossimo un atto di egoismo. Pur non essendo un ambientalismo “scientifico” o “popolare”, nelle istanze di Elena Croce era ben viva la consapevolezza che l’ambiente andasse protetto tanto dalle aggressioni chimiche quanto da quelle urbanistiche. Difesa dell’ambiente significa, così, difesa dei centri storici, del paesaggio, del verde ma anche della salubrità del territorio messa a repentaglio da industrie inquinanti come l’Italsider di Bagnoli, «la cui polvere è rovinosa per la salubrità e il verde della zona» (Croce, 1968). Ancora in un passo del 1979 ritroviamo la denuncia della distruzione paesaggistica legata alla proliferazione di infrastrutture e dell’avvelenamento ambientale prodotti dall’industria, che «è stata in genere accompagnata dovunque – oltre che da mostruoso, talvolta letale, incontrollato inquinamento – da un’inutile devastazione del territorio circostante, uno sciatto spreco di strade, sterramenti e bastioni, che si sarebbe potuto, ma non si è minimamente provveduto, a riparare con le tecniche moderne, che sono appunto quelle offerte dall’architettura di landscape» (Croce, 2016:121). Sebbene abbia la sensibilità per comprendere gli effetti drammatici dell’uso incontrollato della tecnica sull’ambiente, il suo approccio è diverso da quello di Laura Conti (medico) o di Rachel Carson (biologa marina): il suo non è l’ambientalismo di una persona di scienza, ma un ambientalismo umanistico. Secondo lo storico Luigi Piccioni l’ambientalismo italiano conosce sin dai suoi esordi, nella seconda metà dell’Ottocento, una «grande distinzione… tra l’anima naturalistico-scientifica, l’anima che potremmo definire artistico-patriottica, e quella turistico modernizzatrice» (Piccioni, 1999:7). L’approccio di Elena Croce – come quello di Antonio Cederna e Antonio Iannello – è il prolungamento di quella seconda anima del movimento che «tendeva a considerare la questione della protezione della natura come parte della più generale questione della tutela del patrimonio storico e artistico della nazione» (Piccioni, 1999:7). L’aggressione al paesaggio e ai centri storici non è solo un’aggressione ai corpi, ma allo spirito: «non solo le più alte ragioni dello spirito, ma tante semplici ragioni di umanità rendevano inestimabile ed indispensabile» la difesa del patrimonio comune, contrapponendo «alla prospettiva di annientamento, la difesa delle ragioni di vita e di umanità che si incarnavano nella storia e nella natura» (Croce, 2016:53).

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A partire da questa vicenda personale inizia la militanza ambientalista di Elena Croce. La prima vertenza “ambientale” di Croce è d’insegnamento immediato:

 “i singoli cittadini non hanno la forza per opporsi alla devastazione del paesaggio, all’inquinamento dell’ambiente, all’abbattimento di parti importanti del patrimonio architettonico italiano. «Le strutture dello Stato – scrive nel 1979 – preposte alla tutela dell’ambiente erano assolutamente esigue e troppo fragili per fronteggiare un’aggressione ciclopica come quella che era in corso, e la denunzia e difesa individuale era pressoché impraticabile; occorreva immediatamente costituire un’associazione.”

Era questa la principale lezione che avevo appreso dai primi accenni della battaglia culturale, pratica e giuridica, in cui si era avventurata mia madre. Bastava del resto gettare uno sguardo attorno per vedere quanto avanzato fosse il pericolo. Già nella sola Napoli, dove invano si cercava di ottenere filtri che arrestassero l’inquinamento di Posillipo, procedeva ininterrotta la cementizzazione della collina… e la distruzione dei Campi Flegrei» (Croce, 2016:57). Quest’urgenza di porre un argine alla distruzione del paesaggio e dei centri storici italiani la porterà a fondare nel 1955 Italia Nostra. La prova generale per la nascita dell’associazione, come raccontano Francesco Erbani e Vezio De Lucia (Erbani, 2002; De Lucia, 2013), è a Roma nel 1952: il Comune, in attuazione del piano regolatore del 1931, ha imposto lo sventramento di via Vittoria per realizzare un nuovo collegamento viario tra questa e Via Veneto. Tra il 1952 e il 1954, come ricostruisce Edgar Meyer (Meyer, 1995), alcuni intellettuali organizzano una mobilitazione contro il piano particolareggiato adottato dal Comune. Ad una prima lettera inviata alle principali autorità interessate nel 1952 a firma di Corrado Alvaro, Carlo Antoni, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Emilio Cecchi, Umberto Calosso, Ennio Flaiano, Mario Pannunzio, Vasco Pratolini, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfì, Mario Vinciguerra, segue nel 1954 un secondo appello indirizzato al Consiglio superiore dei Lavori pubblici con la richiesta di revocare il progetto. Tra i 15 sottoscrittori del testo di protesta ci sono Corrado Alvaro, Riccardo Bacchelli, Vitaliano Brancati, Emilio Cecchi, Elena Croce, Gaetano de Sanctis, Ugo La Malfa, Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Pannunzio, Nina Ruffini, Gaetano Salvemini, Ignazio Silone, Manara Valgimigli e Umberto Zanotti Bianco. Gli ambientalisti vincono, ma questa ulteriore esperienza contribuisce a far maturare la coscienza della necessità di un’organizzazione politica. Il 29 ottobre 1955 a Roma Italia Nostra vede finalmente la luce. La presidenza è affidata all’archeologo Umberto Zanotti Bianco. L’atto fondativo è sottoscritto da Desideria Pasolini dall’Onda, Giorgio Bassani, Luigi Magnani, Hubert Howard e, ovviamente, Elena Croce. Come suggeriscono i cognomi aristocratici non si tratta dell’atto fondativo di un ambientalismo popolare. Pur appartenendo ad un’élite aristocratica Croce e gli altri ambientalisti non si allineano né con un’indifferenza disfattista o né con quanti cavalcano la nuova corsa all’oro della speculazione edilizia, scegliendo invece di dedicarsi alla difesa del bene comune in nome dell’interesse collettivo. Nel corso degli anni il bisogno di sortire una maggiore efficacia porta alla nascita di nuove organizzazioni. Nel 1969 nasce il «Comitato permanente di studi ed interventi a difesa dei beni culturali ed ambientali del paese e del meridione in particolare»: presieduto da Enrico Cerulli e sostenuto, tra gli altri, da Giovanni Pugliese Carratelli, Antonio Iannello, Mario De Cunzo, Alda ed Elena Croce. Fin da subito il Comitato si trova ad affrontare una serie di minacce incombenti – come la distruzione della collina di Capodimonte a causa della costruzione della tangenziale di Napoli – distinguendosi per la capacità dei suoi membri di contrastare con fermezza le istituzioni coinvolte, analizzandone i piani, individuando i punti deboli e proponendo soluzioni alternative spesso vincenti. Tra il 1969 e il 1976 il Comitato riesce a far valere le sue osservazioni al Piano Regolatore di Napoli garantendo la salvaguardia del centro storico, organizza una serie di convegni sull’ambiente collaborando con il British Institute di Firenze e con il Goethe Institut di Roma, riceve dalla Cassa per il Mezzogiorno l’incarico di redigere il Piano paesistico dei Campi Flegrei, salvando così la via Campana antica, destinata ad essere irrimediabilmente sfigurata, ed evita lo sventramento delle colline verdi dello Scudillo e di Capodimonte. Infine, stila un censimento dei giardini storici della città, nell’ambito di una ricerca sul verde pubblico a Napoli, e promuove il «Premio per l’artigianato napoletano» con il contributo della Banca d’Italia, il FAI, le Assise della città di Napoli (Croce, 2016). Un altro contributo fondamentale è quello dato alla fondazione del FAI, a cui diedero vita Giulia Maria Crespi e Renato Bazzoni. Nell’archivio di Elena Croce troviamo traccia della relazione tra quest’ultimo e Croce: «Cara Signora – scrive Bazzoni il 2 febbraio 1978 – finalmente sono in grado di inviarle la tessera n. 12 del FAI (è la prima dopo quella dei Consiglieri). Lei, che è stata concreto sostegno prima ancora della nascita del “Fondo” avrebbe diritto a una tessera del tutto particolare. Ma ciò non è previsto dallo Statuto. Sappia però che tutti noi con affetto e riconoscenza, gliel’abbiamo ugualmente dedicata» (Croce, 1977-1978).

Le battaglie ambientali

La fondazione di Italia Nostra avvia nel Paese una lunga stagione di battaglie ambientali che vedono spesso Elena Croce schierata in prima persona, come testimoniano anche i carteggi conservati nell’Archivio della Fondazione Benedetto Croce. Lettere e biglietti inviati alla studiosa in cui, di volta in volta, sono segnalati scempi da combattere e monumenti naturali e storico-artistici da tutelare, o in cui giungono commossi ringraziamenti e attestazioni di stima per l’impegno e la dedizione profusi per la causa dell’ambiente. Per dare un’idea dell’ampiezza della sua attività possiamo menzionare alcune delle battaglie a cui prese parte. Come mostrano i materiali rinvenuti nell’archivio, da un punto di vista geografico le lotte ambientali spaziano lungo l’intera penisola. La città di Napoli occupa indubbiamente un ruolo centrale nell’attività di tutela svolta da Elena Croce; le battaglie principali riguardano il centro storico nella sua totalità, ma anche singoli edifici storici minacciati dalla speculazione edilizia; aree verdi e agricole urbane, o le ville storiche napoletane. Anche la Costiera Amalfitana ha una posizione di rilievo all’interno del suo quotidiano impegno. La Baia di Jeranto è senz’altro il luogo difeso più strenuamente: da cava dell’Italsider ad area vincolata e protetta dal FAI, la splendida baia amalfitana si è conservata pressoché intatta fino ai nostri giorni grazie ad una lunga e logorante battaglia che si è conclusa con esito positivo nel 1986. Le fasi della vicenda sono documentate in diversi carteggi con esponenti politici tra cui Antonio Maccanico e l’on. De Michelis. Ancora, possiamo ricordare la lotta contro l’abusivismo edilizio nel Parco Nazionale d’Abruzzo, la denuncia contro il tentativo di costruire un villaggio turistico nella baia cilentana degli Infreschi e la difesa del centro storico di Salerno. Ancora, in Campania, le battaglie ambientali per la difesa dei Campi Flegrei, volte soprattutto a tutelare le aree archeologiche minacciate dalla costruzione della tangenziale negli anni Settanta e dalla proliferazione dell’abusivismo edilizio. In archivio non mancano documenti e articoli di denuncia che riguardano altre regioni d’Italia come Lombardia, Lazio, Abruzzo, Umbria, Emilia Romagna, Toscana, Calabria e Basilicata. Gli articoli relativi all’Italia settentrionale riguardano la Valtellina, il castello di Avio in Trentino Alto Adige, Genova e diverse zone in Lombardia. Infine, vi sono tre articoli sulla Polonia, la Macedonia e la Jugoslavia. Ancora, possiamo citare la lotta contro il nucleare. «Il 27 marzo 1976 – racconta Giorgio Nebbia – Italia Nostra pubblicò una dichiarazione firmata dal presidente Giorgio Bassani, dal direttore generale Bernardo Rossi Doria e da altri fra cui Antonio Cederna, Fabrizio Giovenale, Elena Croce, Mario Fazio, Alfredo Todisco, Adriano Buzzati Traverso, Natalia Ginzburg, Gianfranco Amendola e altri fra cui io stesso» (Nebbia, 2009). L’ incipit del testo, dopo la tragedia di Fukushima, oggi suona tanto profetico quanto attuale: «L’energia elettrica ottenuta per via nucleare non è né economica, né pulita, né sicura». Nel 1983 in un’intervista rilasciata a «la Repubblica», Elena Croce si dissocia pubblicamente dalla posizione del Partito Repubblicano, tra le cui fila si era candidata come deputata alla Camera, affermando: «Nucleare no, anche se il Pri ha votato a favore delle centrali. Non si può condividere tutto di un partito» (Croce, 1983). Un’ulteriore dimostrazione di coerenza e autonomia intellettuale – che però, a pensar male, le costerà l’elezione in Parlamento.

L’attività intellettuale di Elena Croce è molto eterogenea e comprende opere di saggistica storica, racconti a carattere autobiografico, traduzioni letterarie, direzione e redazione di riviste letterarie. Parallelamente, ella porta avanti un intenso impegno giornalistico dedicato principalmente a tematiche ambientali. Attraverso il giornalismo la studiosa profonderà un impegno notevole alla causa della tutela sia scrivendo di proprio pugno sia sollecitando articoli e servizi televisivi. «Cara Elena – le scrive Eugenio Scalfari il 26 aprile 1977 per conto del quotidiano «la Repubblica» – la ringrazio di averci segnalato il “monstrum” della costiera amalfitana [il riferimento è all’Amalfitana Hotel, n.d.c] e ho dato indicazioni perché il giornale se ne occupi al più presto» (Croce, 1977-78). La pubblicazione di articoli di carattere ambientale, avvenuta in maniera costante nell’arco di quasi un trentennio, ha rappresentato per non solo la studiosa napoletana un importante strumento di lotta non solo per denunciare, ma anche per elaborare costruttive proposte di tutela, alternative a quelle auspicate dai fautori dello “sviluppo”. Inoltre, ha indubbiamente contribuito ad una maggiore divulgazione delle tematiche ecologiche nonché ad una crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica nel nostro Paese, come dimostrano alcuni articoli riguardanti la nascita di nuove associazioni per la salvaguardia del territorio ad opera di giovani, definiti efficacemente dalla Croce «conservatori rivoluzionari». Dai dati ricavabili nell’archivio, Elena Croce ha pubblicato 110 articoli di stampo ambientale in un arco temporale compreso tra il 1958 e il 1986 sui quotidiani «Il Mondo», «La Voce Repubblicana», «Il Globo», «Il Corriere della Sera», «Il Giorno», «La Nazione», «Il Mattino», «La Stampa», «Gazzetta di Salerno», «L’Europeo», «Roma», «Avanti», «Il Sole 24 ore». Inoltre, sono stati rinvenuti due articoli del 1968 in lingua spagnola, pubblicati sui quotidiani «La Naciòn» e «La Prensa». In una prima fase, tra il 1958 e il 1966, la frequenza degli articoli risulta ancora sporadica; in una seconda e più lunga fase, tra il 1966 e il 1986, essa diventa invece più frequente e costante. Le questioni a cui dedica la propria penna, ironica e affilata, sono numerosissime: dalla difesa della Valtellina a quella della villa vesuviana di Oplonti, dalla denuncia dell’abusivismo edilizio, del degrado dei centri storici, dell’inquinamento delle industrie siderurgiche. Per dare un’idea dell’eterogeneità delle questioni affrontate basti citare qualche titolo: Parchi nazionali e difesa del paesaggio («La Voce Repubblicana» 6 dicembre 1967), Amici europei in aiuto dei monumenti di Roma («Il Giorno» 25 ottobre 1972), Genova città saldamente europea («Il Globo» 15 marzo 1973), La Napoli di esportazione confezionata in plexiglas («Il Globo» 14 settembre 1974), L’architettura degli alberi («La Stampa» 6 marzo 1975) Io sono contro il nucleare («la Repubblica» 20 giugno 1983).

Qualche dettaglio filologico.

Nel libro La lunga guerra per l’ambiente Elena Croce sistematizza e sviluppa molte delle tematiche trattate di volta in volta nei testi giornalistici. Le informazioni che possediamo sul testo, pubblicato per la prima volta nel 1979, sono sempre ricavate dall’archivio: il contratto stipulato con Mondadori per l’edizione del libro e il carteggio con Egidio Pentiraro. Quest’ultimo era il responsabile della sezione Saggistica di Arnoldo Mondadori Editore e seguì la pubblicazione del libro. Come si evince dal carteggio, la struttura del testo era inizialmente diversa, a partire dal titolo. «Come Le ho accennato a telefono – scrive Pentiraro – ho letto con molto interesse i Suoi scritti su La lunga guerra dell’ambiente, e Le confermo che la Mondadori sarebbe lieta di pubblicare l’opera nella collana l’Immagine del Presente». Pentiraro articola una serie di osservazioni che lasciano ipotizzare diverse fasi di redazione del testo, di cui purtroppo non sono conservate bozze intermedie. L’editore suggerisce di usare «la breve cronaca del movimento, dalla nascita di un Comitato per la Difesa Culturale per il Mezzogiorno alla collaborazione con Italia Nostra per la salvaguardia dell’ambiente partenopeo» come «pretesto per presentare il tema più vasto e più nuovo del volume, che consiste nell’esigenza di investire del problema la società nel suo insieme». Corredando gli esempi «molto appropriati» con maggiori informazioni per i lettori. Egli chiede «qualche riferimento alle realtà del Nord Italia, dove l’industrializzazione e la speculazione selvaggia, l’imprevidenza dei politici, hanno fatto dire che il nostro paese è diventato “la pattumiera d’Italia”». Infine, l’editore consiglia a Croce di rendere l’opera «un po’ più divulgativa», rispetto «soprattutto alla terminologia». Il 17 gennaio 1979 Pentiraro scrive nuovamente a Elena Croce, chiedendo, «anche per ragioni di composizione», una «versione interamente rifatta» del dattiloscritto. Il 14 febbraio l’editore conferma di aver ricevuto la seconda copia del dattiloscritto. Tra le due lettere di Pentiraro è conservata, priva di data e collocazione, la bozza di una risposta, redatta presumibilmente da Elena Croce, durante la seconda fase di redazione del testo in cui l’autrice fornisce alcune indicazioni sulla «Nota» in appendice al testo, in cui si ricostruisce la creazione di Italia Nostra e delle altre associazioni ambientaliste. Nella lettera di accompagnamento al contratto, datata 23 maggio 1979, per la prima volta si legge la versione definitiva del titolo La lunga guerra per l’ambiente. La narrazione in prima persona caratterizza la produzione di Elena Croce, ma nel caso de La lunga guerra per l’ambiente la testimonianza personale ha una duplice valenza. Secondo Karen Warren «molte femministe e molte studiose di etica ambientale hanno cominciato a esplorare l’uso della narrazione in prima persona come un modo per sollevare in etica temi filosoficamente pertinenti, spesso persi o lasciati solo sullo sfondo nell’etica filosofica corrente. […] Ci sono almeno quattro ragioni per cui il ricorso a un racconto in prima persona è importante per il femminismo e per l’etica ambientale» (Warren, 2014:31). Esso «dà voce a una sensibilità intimamente vissuta, spesso assente nelle dissertazioni della tradizione etica analitica, cioè a una sensibilità in grado di condurci a concepire noi stessi come definiti fondamentalmente dallo ‘stare in relazione con’ altri, inclusi gli altri non-umani. […] Pertanto, si trova in contrasto con un’impostazione rigorosamente riduzionista, disposta a prendere sul serio le relazioni solo (o in primo luogo) alla luce della natura dei soggetti che entrano in queste relazioni (per esempio, solo se gli elementi coinvolti nella relazione sono soggetti morali, detentori di diritti, titolari di interessi, esseri senzienti)» (Warren, 2014:32). L’oggetto della relazione narrata ne La lunga guerra per l’ambiente è l’ambiente inteso come unità di natura e cultura, paesaggio, territorio inteso sia dal punto di vista delle matrici ambientali  sia da quello delle componenti antropiche. La necessità della sua difesa non è argomentata analiticamente, ma attraverso il racconto autobiografico della relazione con i luoghi. La prosa dell’autrice – in cui si registra il ricorso a figure come personificazioni (gli scempi edilizi «chiedono» di essere abbattuti)

. La scrittura ambientale, spiega Serenella Iovino, «è mossa da due intenti caratteristici; un intento “epistemologico”, volto a creare nel lettore un’idea problematica del rapporto tra umanità e natura; e un intento “politico”, consistente nell’adozione di tecniche retoriche che inducano a sviluppare nuovi atteggiamenti nei confronti dell’ambiente e delle forme di vita non umane» (Iovino, 2006:24). L’intero testo è una lunga esortazione rivolta al lettore a riconsiderare le categorie con cui osserva i cambiamenti del mondo circostante: l’avanzata del cemento, la distruzione delle coste, la sostituzione dei materiali e dei saperi architettonici legati a un contesto territoriale con materiali e saperi omologati. La parola «cemento» ricorre costantemente, come simbolo di architettura scadente, ma anche di un’idea scadente di paesaggio e ambiente, intesi dalla «speculazione» unicamente come territorio di conquista. Il testo contiene anche un capitolo – intitolato L’Arcadia chiaroveggente – dedicato a una lettura ecocritica di alcuni testi letterari: L’Arcadia di Jacopo Sannazaro, il Walden, orthe Life in the Woods di Henry David Thoreau, il Nicholas Nickleby di Charles Dickens, il Twilight in Italy di David Herbert Lawrence, passando per Conrad, Zinoviev, Weizsäcker, Gandhi. «La lunga storia dell’“Arcadia” letteraria – scrive – è del resto tutta ricca di insegnamenti sui molteplici modi in cui la cultura affina e distorce il sentimento della natura. L’Arcadia che nasce con l’accento di meraviglia grave e profondo di Jacopo Sannazzaro dinanzi al miracolo, che sia la solennità dell’Ariete, o la ninfa che si trasforma in cespuglio di biancospino, lascia infatti come sue ultime immagini la tristezza degli artificiosi scenari pastorali costruiti nei parchi regali o principeschi. Lo stesso potrà dirsi del russovianesimo, o di particolari grandi correnti come quella della letteratura americana di denunzia dell’urbanesimo, nella quale rientra un classico che già quasi appartiene al nostro secolo come il Walden o la vita nei boschi» (Croce, 2016:). Secondo Croce il testo di Thoreau «rimane un classico per la difesa della natura perché è soprattutto un poema, in prosa, costruito con un sottile senso del ritmo. Nel suo richiamo alla felicità del contatto con la natura suona l’assoluta sicurezza nella forza salutare di quella che egli sente come suprema potenza regnante. E un disprezzo per chi non le si rimette con devozione di suddito, che non può ormai non tingersi di angoscia per il lettore d’oggi» (Croce, 2016:).

Quello di Elena Croce è un testo ecocritico, nella misura in cui esso «non vuole perciò limitarsi a esercizi ermeneutici o ricostruzioni storiche ma intende essere una forma di attivismo culturale: un movimento, una critica militate… che cerca nella cultura uno strumento che affini la nostra consapevolezza della vita e dei cambiamenti nella società contemporanea» (Iovino, 2006:13).

Accuse di elitarismo

La consapevolezza del rischio che le battaglie per la tutela del territorio apparissero agli occhi del pubblico capricci aristocratici accompagna Elena Croce sin dall’inizio.

Durante la fondazione di Italia Nostra, nel 1955, appoggiata pienamente da Zanotti Bianco, Elena insiste sull’evitare che l’associazione assuma un carattere elitario, premendo affinché le sezioni in cui Italia Nostra si sarebbe articolata territorialmente avessero un alto grado di democrazia interna.

Ancora nel 1979, ne La lunga guerra per l’ambiente, scrive: «Il pregiudizio che quello della conservazione dei nostri “beni” nazionali sia una causa elitaria è decisamente superato dalle circostanze di fatto che essa, se pure necessariamente di minoranza (la maggioranza andando di diritto a coloro che – a tutti i livelli sociali – permangono e permarranno sempre in alta percentuale, preda dell’ideologia consumistica), è una causa popolare e inoltre molto sensibile è la quota, che vi aderisce, delle giovani generazioni: le quali […] hanno in questo campo – a differenza di altri – il vantaggio della spontaneità dell’istinto di preservazione» (Croce, 2016:241). Nonostante i suoi continui tentativi di smarcarsi dal pregiudizio, scrive Giorgio Nebbia che proprio a causa delle battaglie contro le raffinerie di petrolio «Italia Nostra fu accusata di essere una congrega di contesse, di benestanti, di nemici del progresso, intenti solo ad assicurare a se stessi condizioni di mare pulito e di aria pura senza alcun rispetto per i nuovi bisogni della motorizzazione, per l’occupazione che le raffinerie e le fabbriche inquinanti assicuravano. Stizzose reazioni “di destra” che però hanno anche trovato ascolto nella sinistra e nell’estrema sinistra che in certi momenti ha denunciato l’ecologia come scienza borghese, la protesta come “ecologia delle contesse”» (Nebbia, 2015:87). Lungo tutta la sua attività in difesa dell’ambiente, Elena Croce dovrà difendersi costantemente dall’accusa di portare avanti una battaglia elitaria, aristocratica. Se la damnatio memoriae la accomuna ad un’altra figura femminile dell’ambientalismo italiano, Laura Conti, va tuttavia sottolineato che, mentre l’ambientalismo di Conti – medico, ambientalista , tra le prime a denunciare i danni di Seveso – è giustamente considerato,l’ambientalismo di Croce dev’essere costantemente riportato alla dimensione di lotta per il bene comune e costantemente disincastrato dal pregiudizio classista. Del resto, lo stesso ambientalismo scientifico in Italia ha subito un giudizio simile: «Unlike the “silent spring” of some environmentalist traditions – scrivono Marco Armiero e Marcus Hall – ecological concerns were hardly represented in Italian social movements of the sixties». Infatti, nell’immaginario comune «ecology was a middle class science, and efforts to protect animals and plants were a diversion for members of the nobility» (Armiero e Hall, 2010:4). In anni recenti i lavori di Salvatore Settis(Settis, 2010), Tomaso Montanari (Montanari, 2015) e Paolo Maddalena (Maddalena, 2014) sono riusciti a diffondere presso il pubblico più ampio l’idea che il paesaggio e il patrimonio storico-artistico siano un bene comune, da difendere nell’interesse di tutti. Del resto, negli ultimi anni, il consumo di suolo in Italia si è posto sotto gli occhi di tutti come un problema drammatico. Scrive Salvatore Settis il 18 febbraio 2018: «Ricordo solo qualche dato Ispra. 23.000 chilometri quadrati di territorio divorati dal cemento negli anni 1950-2016: il 7,64% della superficie del Paese, più o meno quanto la Lombardia. Tre metri quadrati al secondo, trenta ettari al giorno coperti dal cemento. […] Sei milioni di ettari persi per l’agricoltura, riducendone la produzione con una perdita netta vicina a un miliardo di euro l’anno; per non dire che il cibo che non produciamo più dobbiamo importarlo. Intanto non si arresta l’erosione delle coste, ormai smangiate al 51% (stima Legambiente) da porti turistici, villette, alberghi e resort. La fragilità idrogeologica e sismica del territorio costringe periodicamente a correre ai ripari (3,5 miliardi di costi l’anno secondo Ance-Cresme), senza mai avviare opere di prevenzione. Salvo stracciarsi le vesti a ogni alluvione, esondazione, terremoto, frana, “bomba d’acqua”, con relativi morti e feriti» (Settis 2018). Negli anni in cui il fenomeno stava iniziando ad assumere proporzioni preoccupanti ma imparagonabili rispetto a quelle attuali, gli avversari di Elena Croce potevano facilmente utilizzare argomenti sociologici per stigmatizzare e ridicolizzare le sue posizioni. Leggendo attentamente i suoi articoli, tuttavia, le accuse di elitismo appaiono largamente strumentali. In un articolo del 1977 dal titolo I giovani e l’ambiente: conservatori rivoluzionari ella riporta l’esperienza di «del gruppo Habitat di Raito, il quale già da oltre un anno agisce in questa bella frazione di Vietri», composto da «giovani operai, studenti, insegnanti, i quali spesso sacrificano la propria giornata di vacanza per ripulire o restaurare fontane, piccoli “arvarii” di fiori, edicole sacre» (Croce, 1977).

La  causa della tutela dell’ambiente, spiega Croce nell’articolo, è trasversale, coinvolge i giovani e non può essere liquidata come un capriccio aristocratico. In un altro articolo dal titolo Il virus ecologico, scritto ancora nel 1979 per difendersi da una nuova accusa di elitismo, riporta il contenuto di un colloquio telefonico avuto con il segretario del Partito Comunista di Napoli, Eugenio Donise. L’argomento è l’Italsider di Bagnoli. Ella, facendosi portavoce delle istanze avanzate dagli ambientalisti napoletani, spiega al segretario del PCI che «nessuna ragione di ordine estetico dettava la nostra opposizione all’ingrandimento dell’Italsider» dato che «chiunque abbia un minimo di gusto raccapriccia al pensiero di un eventuale quartiere residenziale che sostituirebbe con la volgarità il romantico paesaggio vecchio industriale dell’acciaieria. La protesta quindi aveva un unico motivo: la gigantesca fonte di inquinamento». Le emissioni dell’Italsider e della Cementir avvelenavano l’aria respirata da coloro che abitavano in prossimità degli impianti: «l’apparato respiratorio dei napoletani – scrive ancora – è sottoposto alla più mostruosa e micidiale ingestione di polvere e veleno innanzitutto della Cementir (fonte di lavoro tra l’altro irrisoria che è davvero criminale non aver eliminato: non è domani, è oggi che si deve chiudere la Cementir!) e poi dell’Italsider e delle raffinerie» (Croce, 1979). Alla risposta del politico, secondo cui non ci si poteva augurare che gli operai metallurgici fossero trasformati in camerieri a causa della chiusura dell’industria, Croce aveva obiettato che «pur dando per scontato che gli operai metallurgici sono la parte più evoluta della classe operaia», tuttavia non sembrava «lecito gettare un’ombra di disprezzo su dei lavoratori, e duramente lavoratori, quali sono gli addetti all’industria alberghiera e turistica». L’accusa di “elitarismo” è quasi una reazione automatica, su cui far leva quando le denunce di Croce diventano troppo scomode. A un anno di distanza dalla conversazione – spiega Croce nell’articolo – agli operai metallurgici viene riferito che «nientemeno la figlia di Benedetto Croce… aveva auspicato che tutti i metallurgici di Bagnoli si convertissero in camerieri», suscitando l’ira degli operai che aggredirono – come riporta l’articolo – «il principale rappresentante napoletano di Italia Nostra… convinti che egli si battesse per “togliere loro il lavoro”» (Croce, 1979). L’articolo termina con un’amara considerazione: quella conversazione «è rimasta emblematica per la sordità dell’interlocutore», una sordità «comune a tutta una classe dirigente paurosamente sorda a tutto ciò che è pericoloso, paurosamente insensibile alle istanze primarie della salute e della sopravvivenza di una popolazione altamente civile sulla cui rassegnazione sarebbe criminale ma anche dissennato contare troppo a lungo» (E. Croce 1980). Parole profetiche, se si pensa all’attuale, drammatica vicenda dell’Italsider .

Taranto. Un ultimo esempio riguarda quei fenomeni che oggi sono conosciuti come “gentrificazione” o “turistificazione”, cioè l’espulsione dai centri storici dei ceti popolari, nel primo caso a causa della sostituzione con classi più agiate, nel secondo a causa della trasformazione del mercato immobiliare legato al boom delle case vacanze e dei bed&breakfast. Croce affronta l’argomento del turismo ne La lunga guerra per l’ambiente scrivendo da un lato che il centro storico non va trattato come una “riserva indiana” in cui trattenere a tutti i costi i suoi abitanti, ma che dall’altro lato è innanzitutto «un dovere sociale, di lotta contro l’emarginazione» offrire «tutte le possibilità e anche gli incentivi perché i vecchi abitanti non debbano lasciare le loro abitazioni» (Croce, 2016:87). Aproposito dell’offerta di nuovi alloggi periferici, scrive ancora che la strategia adottata dai «negrieri della speculazione edilizia» è attirare «con le perline false di alloggi, cosiddetti decenti, in nuovi quartieri periferici» la popolazione residente, deportandola in realtà in «luoghi di estraniamento, e spesso di degradazione» (Croce 2016, 86). Un fenomeno che si accompagnava all’avanzata di una «speculazione di lusso e semilusso che ormai occupava perfino le botteghe abbandonate dagli artigiani nei centri storici, e portava con sé… lo snaturamento sociologico dell’ambiente stesso» (Croce, 2016:85). Il centro storico, in altre parole, non va tutelato solo dal punto di vista storico artistico, ambientale, ma anche sociale. Una posizione che in quegli anni siscontrava contro quanti, viceversa, auspicavano l’allontanamento dei ceti più poveri dal centro storico di Napoli con l’intento (apparente) di migliorarne la qualità della vita (Pane, 1971:81). 3.2 La figlia del filosofo Elena Croce è perfettamente consapevole di gestire un ruolo complesso: essere un’intellettuale con una propria autonomia di pensiero e di impegno politico e al contempo la figlia del più importante filosofo italiano del Novecento. E l’essere figlia, spesso, rischia di mettere in secondo piano agli occhi del pubblico l’autonomia dell’intellettuale e della donna. È “la figlia di Croce” a sperare che gli operai si trasformino in camerieri. La reazione ironica della studiosa mostra un elevato grado di auto-consapevolezza: «era davvero una stranissima esigenza per la figlia di un filosofo» augurarsi che i metallurgici si trasformassero in camerieri, «ma più strano ancora era che la figlia di un filosofo fosse un personaggio in qualsiasi modo istituzionalizzato».

Ancora, in un’intervista intitolata I nostri nipoti vivranno nel deserto, uscita in occasione della pubblicazione de La lunga guerra per l’ambiente, all’intervistatore pare quasi scontato porre la domanda: «Come vive la figlia di Benedetto Croce con la responsabilità di un nome così importante?» (Croce, 1979). Nel 1980 appare un articolo di Elena Croce su il “Corriere della Sera” sul terremoto dell’Irpinia. Il titolista – che nelle redazioni dei giornali è una figura autonoma – sceglie il seguente titolo: La figlia di Croce: ricostruire subito negli stessi posti. Un lungo sottotitolo spiega che «Benedetto Croce subì anch’egli un terremoto in Casamicciola, nell’isola d’Ischia, dove perdette entrambi i genitori… Lo scritto della figlia Elena sulla tragedia dell’Irpinia è una testimonianza e risponde quindi a un’esperienza non solo culturale ma anche umana». Il richiamo all’esperienza paterna è solo in parte comprensibile; da un lato, può esser letto come un modo per destare empatia nel lettore, ma dall’altro come una sorta di “patente” per ricevere diritto di parola. Ma la voce di Elena Croce, chiara e netta, non ha bisogno di legittimazioni esterne: «…quando il pensiero riesce a distogliersi dalla fissità dell’orrore, si ferma su una cosa sola. La possibilità dei sopravvissuti di tornare il più presto possibile alla loro terra, di non languire come sradicati. E immediatamente si affacciano considerazioni ansiose». Le “considerazioni ansiose” non erano affatto peregrine, come avrebbe dimostrato la storia della ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia: «Una delle prime è se, per la ricostruzione, si riuscirà a garantire una sorveglianza rigida e permanente di esperti. E inoltre ci si chiede se, anziché affrontare tutti insieme i rischi di un’edilizia affrettata, non converrebbe, almeno per le case rurali, provvedere alle necessità più immediate con delle case di legno, che sono estranee all’ambiente meridionale ma rapidamente costruibili, salubri e sicure» (Croce, 1980). La studiosa non subisce l’uso esterno dell’autorità paterna: in alcuni frangenti ella stessa usa spregiudicatamente l’’esser “figlia del filosofo” a vantaggio delle cause che difende. La possibilità stessa di potersi rivolgere alla pari ai maggiori esponenti politici del Paese deriva dall’eredità morale che accompagna il cognome che porta. L’esser donna, l’essere figlia del più importante filosofo italiano del XX secolo, l’essere aristocratica: tutto questo ha rappresentato certamente un’ipoteca sul fatto che Elena Croce potesse essere conosciuta da un largo pubblico in base alla qualità della sua produzione testuale e del suo impegno politico.

 

Conclusioni

In questo estratto si è tentato di delineare il contributo dato da Elena Croce all’ambientalismo italiano in termini di organizzazione  del movimento, pedagogia ambientale attraverso la parola scritta, partecipazione concreta a battaglie per la difesa del territorio.

Il connubio di difesa della natura e difesa del paesaggio storico, da sempre presenti nella riflessione dell’autrice, continuano a caratterizzare Italia Nostra a più di cinquant’anni di distanza.

Il taglio biografico di questa ricerca è dipeso dal fatto che, ad oggi, non esistono testi che ricostruiscano in modo storicamente analitico l’attività di Elena Croce sia nel campo intellettuale sia nel campo della difesa dell’ambiente. Croce – lo sottolineiamo per l’ultima volta – oltre ad aver contribuito allo sviluppo della teoria e della pratica del movimento ambientalista italiano, è stata scrittrice, redattrice di riviste letterarie, saggista. L’ambientalismo umanistico di Elena Croce merita di essere riscoperto sia dal punto di vista della storia ambientale sia da quello degli studi di genere. E pari attenzione meriterebbe la sorella Alda Croce, che le testimonianze contenute nell’archivio custodito presso la “Fondazione Benedetto Croce” descrivono come una figura parimenti attiva, anche se meno incline a sottoporsi all’esposizione mediatica. Elena Croce, Alda Croce, Giulia Maria Crespi, Laura Conti: l’ambientalismo femminile italiano del XX secolo è una storia da scrivere e indagare. Alla luce del materiale rinvenuto appare sorprendente il fatto che una figura del suo calibro sia stata rimossa dalla storia delle lotte ambientaliste. Speriamo che questa breve ricerca contribuisca, in parte, a colmare questo vuoto.

Tratto da: LA CAMERA BLU n.18

Fondazione Benedetto Croce