CARLO LEVI-(1902-1975)-L’orologio-

CARLO LEVI-(1902-1975)-L’orologio-

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 Nasce a Torino nel 1902.  Rimase alla Clinica Medica dell’Università di Torino come assistente fino al 1928, condusse lavori sperimentali sulle epatopatie e sulle malattie delle vie biliari, ma non esercitò la professione di medico, preferendo la pittura e il giornalismo.

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Nel maggio del 1950 – con un «lancio spettacolare», «vetrine dei librai colme di orologi, grandi, piccoli, sveglie, orologi a pendolo ecc.» – Einaudi pubblicava, centoventiseiesimo titolo della collana «Saggi», il nuovo romanzo di Carlo Levi, L’Orologio. Originariamente il libro avrebbe dovuto aprire, assieme a Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo, la serie dei «Gettoni», una collezione dalla grafica modernista destinata ai giovani autori italiani: la scelta finale di una collana ibrida come i «Saggi», che già aveva ospitato, nel 1945, Cristo si è fermato a Eboli, andava decisamente in senso opposto, come a sottolineare il carattere indefinito del libro, il suo situarsi al confine e al di là dei generi.

 

Time, Calendar, and flânerie: Leopardi, Benjamin, Levi

1832. Il contesto è imprecisato – solo alluso, in negativo, tra le pieghe di un dialogo secco, teatrale; sappiamo però, sin dalle prime battute, di trovarci in una città moderna e affollata, nei giorni immediatamente avanti il capodanno. In strada, uno strillone smercia almanacchi e lunari, un genere di pubblicazioni che proprio negli anni della Restaurazione conosce una diffusione senza precedenti. Nella folla, il venditore di almanacchi abborda un gentiluomo di passaggio: qualcuno che passa, appunto – un passeggere. Walter Benjamin si stupiva che il flâneur, questa icona del moderno, non fosse nato a Roma. «Parigi», scrive nel 1938, mentre assembla i materiali per il suo libro su Baudelaire, «ha creato il tipo del flâneur. È strano che non sia stata Roma». È a Roma, riflette, che «il sogno stesso» traccia, dopotutto, «strade percorribili», che consentirebbero di trasfigurare la città in una topologia onirica.

il saggio di Benjamin legge i testi di Leopardi e Levi come tentativi di sfuggire alla linearità del tempo dell’orologio o del calendario, recuperando quelle illusioni che la ‘geometrizzazione’ della vita imposta dal moderno ha dissolto: il breve incontro fra passeggere e venditore d’almanacchi, o l’esplorazione dei bassifondi di Roma da parte del narratore leviano, si configurano come possibilità – per quanto fuggevoli nella durata, e magico-circostanziali nelle contingenze – di recuperare un tempo della speranza, della festa o della rivolta.

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Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.

L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sulla popolazione, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente inefficace.  Quegli apparati burocratici  privilegiati, di ogni livello, che erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio:   una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.

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